martedì 7 marzo 2023

Fede: tra il dionisiaco e l'apollineo

"La mancanza di Fede è sempre il male. [...] Satana in noi è il dubbio, e il dubbio finisce in disperazione. [...] La Fede è il grande esorcismo, e anche la prima virtù." (1)

Al giorno d'oggi non è frequente constatare toni così duri, ma comunque vi sono molti teologi che tutt'ora si impegnano a spiegare quanto sia giusto, importante e soprattutto utile credere indefessamente. Questi si accaniscono infatti nell'esaltare la Fede quale fonte di gioia e forza per la vita di tutti i giorni.

Ammettendo che ciò possa essere vero, non vi è però la prova che la Fede sia riposta in qualcosa di vero. Infatti, qualcosa di utile non è necessariamente anche vero, o meglio, affermare che l'idea di Dio sia utile non implica che un essere divino realmente esista. In fondo, che la religione possa essere utile è affermato serenamente da molti filosofi atei, l'esistenzialista Sartre per fare un esempio.

Quindi, il teologo che si impegna a dimostrare la fondatezza della sua Fede basandosi sul fatto che aiuti a vivere e criticando contestualmente la società moderna perché debole e "costruita sulla sabbia" sta magari operando bene come pastore ma non come pensatore razionale. Infatti, la ragione che usa è di tipo dionisiaco, perché non cerca necessariamente il vero, bensì ciò che è utile alla vita fatta di carne e sangue com'è quella umana. 
In questo caso la Verità è oggetto di quella stessa Fede che ci si impegna a difendere e pertanto non può che perdersi e mischiarsi in essa, rendendo quindi impossibile discernere oggettivamente ciò che richiede la sola ragione da ciò che invece ha bisogno dell'intelletto assieme alla Fede.

Le considerazioni fatte fin qui comportano che l'ateo, mostrando rimostranze in un modello etico che pone la Fede come discrimine per l'accesso alla vita eterna, non ragiona mosso dall'utilità personale, bensì da un principio di giustizia e compassione verso i propri simili. In questo caso, la domanda fondamentale non è "che cosa devo fare per andare in paradiso?" bensì "qual è la legge giusta che metta i buoni in paradiso e i cattivi all'inferno?".
Considerando poi che l'essere giusto è una caratteristica normalmente attribuita a Dio, nel chiedersi se la sua legge sia giusta o meno si sta indirettamente ragionando sul fatto che Dio esista o meno.

La consapevolezza di queste differenze nel ragionare può quindi configurarsi come una delle critiche più basilari alla religione in quanto non si occupa di singoli e specifici assunti di Fede, ma del metodo in generale. I teologi parlano infatti di verità e di sapere ma rivolgendosi sempre e necessariamente ai credenti, poiché aprirsi ad una platea di interlocutori più ampia farebbe venire meno i presupposti minimi per poter accogliere le verità religiose enunciate.

I credenti desiderano infatti la verità non per un puro desiderio di conoscenza ma piuttosto per un senso di inadeguatezza e insufficienza che proverebbero sentendosi in balia delle onde del dubbio. Questo porta spesso a perdersi nelle più comuni fallacie logiche come l'applicare due pesi e due misure; facendosi quindi bastare un argomento a favore della propria religione ma contemporaneamente soprassedendo sui legittimi dubbi e ragionamenti degli atei.

Ciò non vuole per forza essere un attacco ai credenti o alla religione in quanto tale, ma piuttosto un monito per tutti coloro che con leggerezza proclamano che la loro Fede non precluda ma anzi si fondi sulla Ragione, evidentemente ignorando in buona o cattiva fede che la razionalità richiede che si seguano delle regole non interpretabili e/o eludibili a seconda delle circostanze e dei propri interessi personali.


il Cercatore di Senso

(1) Diario intimo, Henri-Frédéric Amiel

martedì 7 febbraio 2023

Jean-Paul Sartre: abbandono, disperazione, angoscia e malafede

Volendo proseguire con l'analisi della posizione filosofica di Jean-Paul Sartre, si arriva a toccare quelle parole da lui stesso definite "un poco magniloquenti" (1), ossia:

angoscia, malafede, abbandono e disperazione

In questo articolo si vorrà quindi seguire il percorso argomentativo con cui Sartre lega questi concetti, ritenuti da lui essenziali per comprendere la visione esistenzialistica dell'uomo.

In l'esistenzialismo è un umanismo Sartre afferma:

"l'esistenzialista dichiara volentieri che l'uomo è angoscia.

Questo significa: l'uomo che assume un impegno ed è consapevole di essere non soltanto colui che sceglie di essere, ma anche un legislatore che sceglie, nello stesso tempo, e per sé e per l'intera umanità, non può sfuggire al sentimento della propria completa e profonda responsabilità." (2)

Questa tesi deriva dalla constatazione che, a detta di Sartre, tutte le scelte umane, da quelle più pubbliche come l'adesione ad un sindacato a quelle più intime come lo sposarsi, abbiano due anime: una più palpabile riguardante direttamente la vita della persona che ha compiuto la decisione ed un'altra che rimane invece di sottofondo comprendendo l'intera rete di relazioni e conseguenze che ogni scelta necessariamente porta con sé.

Per fare un esempio, scegliendo di aderire ad un determinato credo religioso si sta implicitamente intendendo che tutti dovrebbero effettuare la stessa scelta in quanto normalmente i valori di tipo metafisico si ritiene siano validi per l'umanità intera e non solo per una persona in particolare. Da notare che perché questo sia vero non sia necessario che chi ha compiuto questa scelta si prodighi nel cercare di convertire gli altri, bensì è una conseguenza automatica che deriva dall'aver fatto proprio, nell'interiorità della propria coscienza, un credo e una religione piuttosto che un'altra.

Alan Turing, matematico e pioniere dell'informatica, scrisse:

"Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza." (3)

Pur vedendo la questione da un punto di vista prettamente fisico e matematico, il senso di questa frase appare simile alla visione esistenzialista Sartriana. Certo, vi è una differenza sostanziale considerando che Sartre parla di scelte umane, quindi di libertà, mentre Turing perlopiù di principi e fenomeni naturali. Questo però non dovrebbe trarre in inganno perché in questo caso, ciò che conta non è tanto la causa dell'effetto osservato (scelta umana o variabile naturale) bensì la serie di conseguenze, potenziali o effettive, che tale causa porterà con sé.

La situazione descritta da Turing è conosciuto dai più come c.d. effetto farfalla, dal titolo di una conferenza tenuta dal matematico e meteorologo Edward Lorenz:

"Può il batter d'ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?"(4)

Pur notando l'affinità dei concetti appena esposti, non bisogna dimenticare però la portata che l'affermazione di Sartre vuole avere. Se infatti Turing e Lorenz si concentrano perlopiù sull'aspetto empirico delle conseguenze a lungo termine di eventi naturali, Sartre pone invece la questione su un piano universale, nel quale il centro non è una variabile tra le tante, bensì la Variabile con la V maiuscola, ossia l'uomo e le sue scelte, quindi la volontà e la libertà su cui l'agire umano poggia inevitabilmente.

È quindi possibile comprendere quanto greve sia l'angoscia che Sartre imputa all'umano agire. Se da un lato, libertà significa dignità per l'uomo, dall'altro significa che ogni scelta comporta una sorta di violenza sul mondo intero, perché scegliendo per sé non si può che scegliere anche per tutti.

Ciò porta poi a delineare il concetto di malafede, ossia quella particolare forma di menzogna che Sartre enuncia per distinguerla dalla mera truffa, ossia da quei casi in cui una persona mente deliberatamente ad un'altra con lo scopo di ottenere un vantaggio personale. Malafede è invece quando si mente a sé stessi, quindi quando la coscienza, come in un momento di poca lucidità, riesce ad auto-ingannarsi.

"Certo, molti uomini non sono angosciati, ma noi affermiamo che essi celano a sé stessi la propria angoscia, che la fuggono; certo, molti uomini credono, quando agiscono, di non impegnare che sé stessi e, quando si dice loro: "Ma se tutti facessero così?", alzano le spalle e rispondono: "Non tutti fanno così". Ma, in verità, ci si deve sempre chiedere: che cosa accadrebbe se tutti facessero altrettanto? E non si sfugge a questo pensiero inquietante che con una specie di malafede." (5)

In questo senso, Sartre delinea un concetto di malafede che richiama quello poi sostenuto successivamente da Hannah Arendt nel suo la banalità del male. In questo celebre saggio, si mette in luce come spesso, alla base dei più orrendi crimini commessi dall'umanità, vi sia una serie di piccole scelte compiute senza consapevolezza delle conseguenze che si sono prodotte, piuttosto che un'indole dualisticamente "cattiva".

Ecco che allora, se da un lato scelta significa angoscia, dall'altro significa responsabilità. infatti:

"È questa specie di angoscia che viene messa in luce dall'esistenzialismo; vedremo che si manifesta inoltre come responsabilità diretta di fronte agli altri uomini che coinvolge. Non è una cortina che ci divida dall'azione, ma fa parte dell'azione stessa." (6)

Se la responsabilità può essere considerata la logica conseguenza del libero arbitrio e l'angoscia come intrinseca alla scelta, non è invece così scontato il collegamento con il senso di abbandono che Sartre più volte menziona. Un cristiano, ad esempio, potrebbe essere portato ad associare la responsabilità al progetto che Dio ha per ognuno ma ecco che allora qui interviene l'ateismo di Sartre, che per lui è scontato dopo le riflessioni di Nietzsche:

"E quando si parla di abbandono, espressione cara ad Heidegger, intendiamo soltanto che Dio non esiste e che bisogna trarne le conseguenze fino in fondo." (7)

Questa convinzione porta poi un'ulteriore peso, come se non bastasse, in quanto l'esistenzialismo ateo di Sartre non condivide quell'idea comune allora come ora che Dio sia una mera e inutile reminiscenza di un passato ancestrale. Crede, al contrario, che con l'assenza dell'Essere perfetto e di conseguenza della valenza del primato dell'esistenza sull'essenza, venga meno il fulcro sul quale basare la leva dell'etica e della morale:

"l'esistenzialista al contrario pensa che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile. [...] Dostoevskij ha scritto: Se Dio non esiste tutto è permesso. Ecco il punto di partenza dell'esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l'uomo è abbandonato perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità d'ancorarsi. E anzitutto non trova delle scuse. Se davvero l'esistenza precede l'essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo: l'uomo è libero, l'uomo è libertà" (8)


Se libertà ha una connotazione normalmente positiva per il senso comune, non lo ha in Sartre, perché questi è consapevole che una libertà senza né guida, né meta e in generale senza fondamento, non può che generare il senso di abbandono prima analizzato e la disperazione che ne consegue:

"Quanto alla disperazione, questa parola ha un senso estremamente semplice. Essa vuol dire che noi ci limiteremo a far assegnamento su ciò che dipende dalla nostra volontà o sull'insieme delle probabilità che rendono la nostra azione possibile." (9)

Ma dato che la volontà viene dopo il mondo e non prima, significa implicitamente che la volontà è determinata totalmente dal singolo uomo a cui appartiene.

Arrivati a questo punto non sembra quindi esserci possibilità di ottimismo o redenzione alcuna, ma non bisogna mai dimenticare ciò a cui Sartre vuole giungere con queste sue riflessioni:

"Un uomo s'impegna nella propria vita, disegna il proprio volto e, fuori di questo volto, non c'è niente. Evidentemente questa idea può parere dura a qualcuno che non è riuscito nella vita. Ma, d'altra parte, essa dispone gli animi a comprendere che soltanto la realtà vale. [...]" (10)

Sartre non vuole quindi gettare nello sconforto, bensì richiamare alla realtà e alla consapevolezza, tantoché lui stesso respinge le accuse di pessimismo, preferendo definire l'esistenzialismo come "rigore ottimista", quindi un ottimismo esigente perché non concede alcuna scusa all'uomo:

"Così abbiamo risposto, credo, ad alcuni rimproveri riguardanti l'esistenzialismo. Appare chiaro che non lo si può considerare come una filosofia del quietismo, dato che definisce l'uomo in base all'azione, né come una descrizione pessimista dell'uomo: non c'è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell'uomo è nell'uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l'uomo distogliendo dall'operare, perché l'esistenzialismo gli dice che non si può riporre speranza se non nell'agire e che la sola cosa che consente all'uomo di vivere è l'azione. Di conseguenza, su questo piano, noi abbiamo a che fare con una morale dell'azione e dell'impegno." (11)


il Cercatore di Senso

(1) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 33, Jean-Paul Sartre
(2) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 33-34, Jean-Paul Sartre
(3) Macchine calcolatrici e intelligenza (1950), Alan Turing
(4) Conferenza The Butterfly effect, (1972), Edward Norton Lorenz
(5) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 34, Jean-Paul Sartre
(6) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 38, Jean-Paul Sartre
(7) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 38, Jean-Paul Sartre
(8) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 40-41, Jean-Paul Sartre
(9) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 50-51, Jean-Paul Sartre
(10) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 56-57, Jean-Paul Sartre
(11) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 60, Jean-Paul Sartre

domenica 15 gennaio 2023

Jean-Paul Sartre: tra libertà e responsabilità

Con questa riflessione, si vuole delineare, piuttosto concisamente e senza la pretesa di completezza, la posizione filosofica di Jean-Paul Sartre, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1964 (da lui rifiutato) e filosofo rappresentativo della corrente dell'esistenzialismo.

Si è deciso però di intraprendere questo viaggio, non con la classica esposizione dei concetti principali dell'autore o con un riassunto didascalico, bensì seguendo i passi decisi da Sartre in persona nello scritto L'Esistenzialismo è un Umanismo, tratto da una conferenza tenuta nel 1945 e motivato dalla volontà di esporre il proprio pensiero al pubblico generalista.

Dopo le prime pagine, nelle quali vengono esposte le critiche a cui l'autore sente di dover rispondere, si arriva subito al punto della questione:

"l'esistenzialismo è in senso stretto destinata agli specialisti e ai filosofi. Tuttavia la si può definire facilmente.

Ciò che rende complesse le cose è il fatto che vi sono due specie di esistenzialisti: gli uni che sono cristiani, e fra questi metterei Jaspers e Gabriel Marcel, quest'ultimo di confessione cattolica; e gli altri che sono gli esistenzialisti atei, fra i quali bisogna porre Heidegger, gli esistenzialisti francesi e me stesso. Essi hanno in comune soltanto questo: ritengono che l'esistenza preceda l'essenza, o, se volete, che bisogna partire dalla soggettività." (1) 

l'affermazione che l'esistenza preceda l'essenza racchiude in sé, ironicamente, l'essenza stessa dell'Esistenzialismo e implicitamente si pone come critica e superamento di Platone, il quale al contrario, riteneva che l'essenza (l'essere) venisse prima dell'esistenza, o in altre parole, che si collocasse prima e più in alto rispetto al mondo sensibile:

"L'idea è pensata, non è sentita. Noi possiamo toccare, vedere, udire quest'uomo, ma non possiamo toccare, vedere, udire l'"uomo"in sé. 

[...] Il suo esser pensato, tuttavia, e la sua intelligibilità non sono un'imperfezione o una mancanza rispetto all'esser sentito e visto, ma sono anzi la sua perfezione e pienezza rispetto al sensibile.

[...] L'Essere immutabile ed eterno si manifesta cioè nella conoscenza concettuale; mentre la conoscenza non concettuale ha come contenuto l'essere diveniente e corruttibile.

[...] Platone esprime questa differenza dicendo che il mondo delle idee è "iperuranio": sta cioè al di là della volta celeste, che in sé raccoglie l'intero mondo sensibile." (2)

Sartre argomenta questo suo cambio di prospettiva partendo da lontano, andando infatti prima a spiegare e contestualizzare perché per molto tempo la tesi platonica è stata quella più in voga:

"Quando si considera un soggetto fabbricato, come, ad esempio, un libro o un tagliacarte, si sa che tale oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato ad un concetto. L'artigiano si è riferito al concetto di tagliacarte e, allo stesso modo, ad una preliminare tecnica di produzione, che fa parte del concetto stesso [...]. Quindi il tagliacarte è da un lato un oggetto che si fabbrica in una determinata maniera e dall'altro qualcosa che ha un'utilità ben definita, tanto che non si può immaginare un uomo che faccia un tagliacarte senza sapere a che cosa debba servire. 

Diremo dunque, per quanto riguarda il tagliacarte, che l'essenza, cioè l'insieme delle conoscenze tecniche e delle qualità che permettono la fabbricazione e la definizione, precede l'esistenza [...].

Allorché noi pensiamo ad un Dio creatore, questo Dio è concepito in sostanza alla stregua di un artigiano supremo [...]. Così il concetto di uomo, nella mente di Dio, è come l'idea del tagliacarte nella mente del fabbricante, e Dio crea l'uomo servendosi di una tecnica determinata e ispirandosi ad una determinata concezione, così come l'artigiano che produce il tagliacarte. In tal modo l'uomo individuale incarna un certo concetto che è nell'intelletto di Dio. Nel secolo XVIII, con i filosofi atei, la nozione di Dio viene eliminata, non così per l'idea che l'essenza preceda l'esistenza." (3)

Vi è poi l'argomento cardine, quello inerente all'esistenzialismo ateo che permette di ribaltare le considerazioni appena esposte:

"L'esistenzialismo ateo, che io rappresento, è più coerente. Se Dio non esiste, esso afferma, c'è almeno un essere in cui l'esistenza precede l'essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: quest'essere è l'uomo [...].

Che significa in questo caso che l'esistenza precede l'essenza? Significa che l'uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo." (4)

La spiegazione in questo caso è semplice, quasi ovvia dati gli assunti di Sartre. È però necessario non soprassedere su un'importante risvolto di quanto detto fin qui: Sartre esordisce affermando che l'unico punto in comune che hanno gli esistenzialisti, credenti o atei che siano, sia nell'affermare che l'esistenza viene prima dell'essenza. Eppure è evidente che l'argomento che utilizza Sartre per dimostrare la validità della sua tesi è accoglibile pienamente solo da chi ha rifiutato qualunque tipo di visione teista. 

Ciononostante, un cristiano potrebbe fondare il suo esistenzialismo ricordando che "il Sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il Sabato!" (5) così da proporre il primato dell'uomo in carne ed ossa, e di conseguenza della sua esperienza concreta qui sulla terra, tralasciando considerazioni di natura puramente ontologica per lasciar spazio a quelle di stampo teologico.

Così facendo, si potrebbe trovare un punto d'incontro, seppur decontestualizzando parzialmente le parole di Sartre, nell'affermare che:

"l'uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell'esistenzialismo.

[...] Ma che cosa vogliamo dire noi, con questo, se non che l'uomo ha una dignità più grande che non la pietra o il tavolo? Perché noi vogliamo dire che l'uomo in primo luogo esiste, ossia che egli è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l'avvenire." (6)

Con queste considerazioni, Sartre arriva a proporre due postulati estremamente rilevanti per la filosofia in generale ma anche per la vita concreta, che in qualche modo possono essere considerati la summa del suo pensiero:

"Ma, se veramente l'esistenza precede l'essenza, l'uomo è responsabile di quello che è. Così il primo passo dell'esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza.

[...] Quando Diciamo che l'uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi si sceglie, ma, con questo, vogliamo anche dire che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. [...] Se io sono operaio e scelgo di far parte di un sindacato cristiano piuttosto che essere comunista; se, con questa mia scelta, voglio mostrare che la rassegnazione è, in fondo, la soluzione che conviene all'uomo, che il regno dell'uomo non è su questa terra, io non metto in causa solo il mio caso personale: io voglio essere rassegnato per tutti e, di conseguenza, il mio atto ha coinvolto l'intera umanità.

[...] scegliendomi, io scelgo l'uomo." (7)

Siamo quindi di fronte all'affermazione di un principio di libertà e volontà per l'uomo e contemporaneamente di una sua responsabilità incalzante.

Vi è da dire che per arrivare a queste conclusioni, Sartre adopera argomenti filosofici piuttosto impegnativi, approfonditi meglio in opere come L'Essere e il Nulla. Pertanto, arrivati sin qui, si potrebbe forse constatare come a volte gli argomenti sembrano saltare qualche passaggio e considerazione. Ciò non è però un problema, perché come in molti altri ambiti della vita, è spesso più utile cercare di avere un punto di vista globale che permetta di circoscrivere i limiti sui quali focalizzare il proprio pensiero e le proprie congetture, piuttosto che partire direttamente dal basso senza aver neppure l'idea di dove si voglia arrivare.

Concludendo questa breve e per niente esaustiva introduzione a Jean-Paul Sartre, si vuole porre l'attenzione come argomenti apparentemente ostici e lontani dalla quotidianità, possono nascondere profonde riflessioni capaci, da un lato, di spingersi sino ai confini più lontani del pensiero umano, e dall'altro, di toccare le vite concrete di ciascuno di noi.



il Cercatore di Senso

(1) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 24, Jean-Paul Sartre
(2) La filosofia antica e medioevale (BUR 2016), pag. 124-125, Emanuele Severino
(3) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 25-27, Jean-Paul Sartre
(4) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 27-28, Jean-Paul Sartre
(5) La Sacra Bibbia (CEI), Marco 2-27
(6) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 29, Jean-Paul Sartre
(7) L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia 1978), pag. 30-33, Jean-Paul Sartre

lunedì 21 novembre 2022

Fides et Ratio: l'eterna contesa

Ragione e Fede possono coesistere all'interno di una stessa persona? Domanda inserita all'interno del più esteso dibattito tra Scienza e Fede, tutt'ora sulla cresta dell'onda.

La questione è sentita sin dagli albori dell'apologetica cristiana e non è mai stata completamente archiviata, il che in realtà non dovrebbe sorprendere perché questo è un esempio emblematico di quei casi in cui ambo i contendenti pensano di avere la vittoria in pugno nonostante la discussione sia ancora lungi dall'essere risolta.

Volendo scrivere un saggio riguardo il tema in questione si potrebbe cominciare proponendo una sintetica storia dell'andamento di questo eterno conflitto, così da introdurre i vari pensatori e intellettuali che vi hanno preso parte. Qui si decide invece di rompere il ghiaccio in maniera fragorosa, con una domanda capace di giungere subito al punto della questione. Infatti, la logica, seppur a volte complessa e apparentemente disorientante, è capace di mostrare subito gli aspetti più rilevanti su cui concentrare gli sforzi intellettuali. la domanda è la seguente:

Dio è onnipotente?

Potrebbe sembrare una domanda inutile o quantomeno fuori tema, infatti per dogma di qualunque confessione cristiana, Dio è onnipotente ed è forse questa sua caratteristica la più evidente distinzione tra Lui e l'Umanità. Eppure, non basta affermare l'onnipotenza divina perché questa esista davvero, bisogna provarlo razionalmente. Così, senza rendersene conto, si è già arrivati ad un primo traguardo importante: se il fedele non è disposto a tentare tale impresa intellettuale, allora ha già implicitamente preso posizione riguardo al dilemma in oggetto. Infatti, non tentare di ragionare sulla questione equivale ad affermare che la Ragione non ha nulla a che fare la Fede, ergo la Fede è irrazionale.

A meno che non ci si voglia già fermare si provi ad andare oltre, ponendosi un'ulteriore domanda collegata alla precedente: 

Se Dio è onnipotente perché esiste tutto quell'insieme di fatiche e dolori che portano gli uomini di tutte le culture a lamentarsi e talvolta bestemmiare?

Anche in questo caso la domanda sembra non c'entrare direttamente con l'oggetto del contendere ma cionondimeno si prova a trovarle una risposta. Il cristiano potrebbe quindi dire: "Dio permette tutto questo perché l'uomo possa imparare e apprendere. Inoltre, il dolore è spesso capace di unire le persone grazie alla compassione che può scaturire".

Così facendo si ha già raggiunto un altro punto rilevante attinente il dilemma Fede e Ragione. Un ateo potrebbe infatti domandarsi perché un dio onnipotente debba usare un metodo tanto angusto per insegnare qualcosa ai suoi figli. Vero che anche un padre umano a volte deve ricorrere alle percosse (meglio se non fisiche) per insegnare qualcosa ai suoi figli ma per l'appunto l'uomo non è onnipotente, quindi perché Dio non schiocca semplicemente le dita e come d'incanto ci insegna tutto quello che abbiamo bisogno per essere pronti al suo regno celeste?

A questo punto subito il credente, sicuro della risposta, probabilmente direbbe: "eh no, così non vale! Ogni uomo deve compiere un suo personale percorso di redenzione, non può essere Dio a far tutto, a maggior ragione considerando il peccato che ognuno di noi si porta con sé. Inoltre, l'uomo è libero di scegliere e Dio rispetta questa sua scelta!".

Al che, l'ateo, similmente a quanto fatto prima, potrebbe replicare: "E allora perché Dio non schiocca le dita rendendo l'uomo come per magia conforme alla sua volontà così che non ci sia bisogno di alcun percorso di redenzione?".

E di nuovo il credente: "non è una soluzione fattibile perché la libertà dell'uomo è sacra!".

Qui sembrerebbe di essere arrivati ad un punto di non ritorno in quanto sia l'ateo che il credente potrebbero continuare a rispondere sempre alla stessa maniera, nonostante che per il credente la sua parrebbe una risposta definitiva: infatti, Dio, pur essendo onnipotente, non vuole forzare l'uomo ma rispettarlo e quindi piuttosto che crearlo buono preferisce sacrificarsi per lui donandogli al contempo la possibilità di arrivare alla bontà in autonomia, sempre però sotto la sua attenta guida. In questo senso si potrebbe aver trovato un'ottima ragione in quanto Dio parrebbe quasi un filosofo socratico, attento ad utilizzare il metodo maieutico con i suoi discepoli, aiutandoli quindi a scavare all'interno di sé stessi e permettendogli così di trovare una verità maggiore, senza calarla loro dall'alto.

In effetti questa risposta è piuttosto interessante ma purtroppo non è risolutiva così come appare. Infatti, il logico, non soddisfatto, potrebbe porre un'ulteriore domanda: 

"perché Dio deve sottostare alla scelta se lasciare l'uomo libero ma sofferente oppure renderlo perfetto e senza dolori ma schiavo della sua perfezione e quindi incapace di evolvere, capire e scegliere da sé?". 

Se a questo punto il credente pensasse di poter rispondere alla solita maniera riferendosi al rispetto la libertà umana dimostrerebbe di non aver colto il significato profondo della domanda. Questa, espressa in tale maniera, vuole infatti evidenziare come Dio non dovrebbe sottostare ai vincoli di questo mondo e alle eventuali contraddizioni presenti in esso. Dovrebbe poter andar oltre, creando dal nulla ciò che vuole (da ricordare che il dio cristiano non equivale al demiurgo platonico), logica compresa.

Infatti, il carattere della bontà divina dovrebbe garantire che Dio voglia il bene per l'uomo, mentre l'onnipotenza dovrebbe per l'appunto donargLi la possibilità di tramutare qualunque Sua volontà in realtà, facendo quindi coincidere la Sua immaginazione con il mondo stesso. 

Il percorso di domande precedentemente intrapreso è quindi di fatto fuorviante perché ragiona su Dio a partire da questo mondo, ma come precedentemente argomentato, dal punto di vista di un dio onnipotente ciò non ha senso.

Arrivati qui, sia l'ateo che il credente potrebbero sentirsi un po' confusi e in difetto nel cercare di entrare e capire la mente di Dio ma il punto è proprio questo: 

la Ragione è necessaria alla Fede?

o similmente:

ha senso ragionare su Dio e la Fede?

Se non si è nemmeno disponibili a farsi queste domande perché si ritiene che la Fede non debba sottostare alla Ragione allora si sta di nuovo implicitamente affermando che Fede e Ragione sono su due piani diversi, ergo la Fede è irrazionale. Tale conclusione non è tra l'altro neppure estranea al pensiero cristiano, in quanto molti credenti (Tertulliano e Kierkegaard tra i maggiori) hanno affermato il senso delle seguenti parole: "credo quia absurdum" (io credo perché è assurdo). Da notare però come la Chiesa Cattolica e in generale la Teologia (Sant'Anselmo, Sant'Agostino e San Tommaso soprattutto) abbiano sempre cercato di muoversi in maniera opposta, sintetizzando: "intelligo, ut credam" (capisco per credere).

Quindi fintanto che si crede senza essere riusciti a rispondere alla domanda precedentemente posta (e tante altre simili) significa che si sta credendo senza le fondamenta di un discorso realmente razionale e pertanto si dovrà momentaneamente accettare di essere giudicati come un credente prevalentemente irrazionale, senza per questo sentirsi offeso. In fondo, sin dagli albori della filosofia si ha un contrasto netto tra il mondo dei sensi e quello della mente, basti pensare a Parmenide, Eraclito e a tutti i filosofi che durante e dopo di loro hanno cercato di trovare una soluzione senza mai arrendersi.




 il Cercatore di Senso

martedì 3 maggio 2022

riguardo alle Religioni da Aperitivo

Oggigiorno si assiste ad un sincretismo religioso forse solo comparabile a quello riscontrabile duemila anni fa presso l'impero romano.

Se tale fenomeno potrà pure entusiasmare editori e scrittori più o meno competenti in materia, chiaramente avrà un impatto diverso su coloro che si considerano ministri e interpreti ufficiali delle maggiori religioni, in primis di quelle monoteiste occidentali.

L'astio e il disgusto che un sacerdote cattolico, per esempio, può provare di fronte alle vetrine delle librerie imbandite di spiritualità da ogni dove è ben giustificabile nell'ottica di una teologia che ha una struttura, una logica e un credo ben definito. Non pare infatti ragionevole l'approccio di quei consumatori di religioni 4.0 che pendono dalle labbra di un santone indiano espatriato negli States mentre al contempo si lasciano ispirare da una figura come Madre Teresa di Calcutta.

Inulte dire che tale discrepanza non può che provocare l'ennesima frattura intergenerazionale, anche se a ben vedere, tale scontrò si verificò in maniera molto simile negli anni delle rivolte giovanili, anni nei quali non a caso vi furono numerose e importanti riforme anche in seno al mondo cristiano.

Ciò detto, chi ha ragione in tale disputa?

Come succede spesso in tali circostanze, nelle quali padri e figli si mettono gli uni contro gli altri, risulta difficile trovare una parte completamente nella ragione e al contempo quella opposta totalmente nel torto.

Sicuramente, quei teologi che vedono nel sincretismo superficialità e populismo religioso hanno ragioni da vendere. Infatti, l'equiparazione di figure vissute in tempi e luoghi molto distanti le une dalle altre è sempre una procedura suscettibile di errori, specialmente se i ricercatori non hanno competenze professionali in merito. Non è inoltre necessario essere complottisti per sospettare che molto sedicenti maestri siano solo approfittatori di tante anime sperdute e desiderose di un senso, pronte a spendere i propri soldi in libri, corsi e kit fai da te per trovare la felicità.

Al contempo però, quei preti che lanciano sentenze ed anatemi verso guru e saggi di altre tradizioni non solo non si rendono conto del profondo stato di crisi nel quale versano le religioni tradizionali, ma ancor più gravemente sono portatori di una pericolosa forma di arroganza nel momento in cui si ritengono gli unici uomini autorizzati a parlare di Dio, Gesù e in senso lato di spiritualità.

Quest'ultima forma di intolleranza pare ancora più ingiustificabile osservando l'evidenza che, anche solo rimanendo all'interno dei confini del mondo occidentale, fino a prima dell'ascesa del Cristianesimo era comune trovare scuole diverse che proponevano le loro morali e le relative vie di salvezza. Inoltre, e ciò è probabilmente il punto della questione attuale, bisogna riconoscere che la religione non è solo paradiso, saggi e regole, in quanto da sempre anche l'aspetto estetico ricopre una funzione fondamentale.

Religione è quindi rito, sensazione, emozione, simbolo e immagine e tutte queste caratteristiche sono ricercate, anche se forse inconsapevolmente, da coloro che spasmodicamente vanno alla ricerca di verità antiche e lontane. Sin da quando l'uomo era vagabondo nelle foreste non erano necessarie solo regole di convivenza bensì anche sensazioni concrete di protezione e sicurezza offerte da riti creduti ispirati dalle divinità.

Si potrebbe quindi affermare a ragione, almeno da un certo punto di vista, che l'uomo moderno, giovane e sempre legato all'evolvere del mondo e della tecnica, si senta attratto verso quelle tradizioni pagane che solo apparentemente possono essere considerate retaggi di un passato remoto completamente scollegato dalla concretezza del presente.

Inutile dire che le proprie inclinazioni filosofico-religiose non potranno che far pendere l'ago della bilancia a favore o a sfavore di tale mutamento della sensibilità spirituale che si sta constatando ma forse, prima di decretare il giusto e lo sbagliato, potrebbe essere utile meditare senza fretta sulla complessità di tale fenomeno culturale intimamente umano.


"la tesi di fondo è che la "dimensione religiosa" è un'esperienza estetica e che l'"organo di percezione" di quest'esperienza è il rito, il quale è, in prima istanza, un "linguaggio estetico" e non una dottrina speculativa. La "scienza liturgica" non può che essere, fondamentalmente, una teologia estetica e la "performance celebrativa" una vivente opera d'arte." (1)



il Cercatore di Senso

(1) dal sito del Monastero di Fudenji (https://www.fudenji.it/seminario_nstc.php)