sabato 28 marzo 2020

sulla perfezione dell'imperfetto

"Poi vedendo come tutto è imperfetto, e persuandedosi che non v'è di meglio al mondo di quel poco buono che essi disprezzano. (...) poco a poco (...), non più al perfetto, ma al vero, si assuefano a perdonare liberamente, e a fare stima di ogni virtù mediocre." (1)
Non è ragionevole cercare di correggere il proprio e l'altrui in ogni minimo dettaglio. Innumerevoli sono infatti le manchevolezze e un eccessivo zelo nel cercare di creare il mondo ideale può condurre verso una china pericolosa. Ci si viene a trovare su una strada ripida, che si stringe sempre più che ci si avvicina alla meta, offrendo così innumerevoli occasioni per cadute accidentali giù dai ripidi pendii che si vanno a creare.
Osservando a fondo, ci si può accorgere che la maggior parte dei problemi che esistono nelle società umane non dipendono tanto dalle piccole manchevolezze di ognuno, bensì dall'assenza, individuale e collettiva, di una tensione verso il bene. Se questo venisse perseguito maggiormente, molte travi verrebbero rimosse e ancor più pagliuzze perdonate.

La tensione alla perfezione è l'analogo in campo morale della tensione verso l'assoluto in filosofia. E come quest'ultima, si tratta verosimilmente di un'utopia irrealizzabile e forse nemmeno sperabile. Infatti, non sono proprio le spinte transumaniste odierne ad aprire concretamente la possibilità alla creazione di esseri esenti da imperfezioni? Eppure, è proprio questo profondo movimento verso l'oltreuomo che minaccia di più la persona in carne ed ossa. Oramai è evidente che la Tecnica, se la si osserva da un certo punto di vista, è mezzo e fine allo stesso tempo, il che comporta che lo stesso concetto di Uomo sia superabile.

In un breve periodo passato in un monastero, mi capitò di lavorare nell'orto assieme ad un saggio e alquanto eterodosso monaco, il quale mi confidò che percepiva il proprio modo di vivere come la forma più in sintonia con la vita degli antichi pensatori greci. Inoltre, condivise con me la tesi che il motivo per cui questi fossero un popolo di filosofi è da attribuirsi alle zone geografiche più miti nelle quali vivevano. Queste imponevano meno sacrifici connessi alla sopravvivenza, concedendo così maggior tempo per dedicarsi alla semplice contemplazione. 
Pur non trovandomi d'accordo sotto altri aspetti essenziali, non posso che ammettere che in fondo, quell'eccentrico monaco non fosse lontano dal vero. E' fondamentale che al mondo esistano ancora persone volenterose nell'affaccendarsi nelle più semplici esperienze di vita comunitarie, così da scuotere le nostre più granitiche e irrazionali convinzioni nella stabilità della società odierna.
Certo, la differenza di veduta c'è, dato che a mio parere, l'importanza dell'approccio scelto dal monaco sarebbe ugualmente valido anche senza l'aspetto di Fede che l'accompagna. Se invece di essere un monastero cattolico ecumenico (che curioso accostamento), fosse una comune epicurea, nella sostanza, poco cambierebbe. Parafrasando un pensiero di Bertrand Russell, se il monaco in questione è riuscito a trovare la serenità agognata, dubito che sia davvero a causa della preghiera comunitaria. Piuttosto penso che sia la qualità e la tranquillità di una vita vissuta sperimentando la soddisfazione di appartenere ad una comunità coesa nella quale potersi sentire al proprio posto, a fare la differenza.
Lo stesso monaco avanzò anche un'altra teoria. Secondo lui, l'invito a perseguire la perfezione fatto da Gesù non è da intendere alla lettera, bensì nel senso più ampio di portare a compimento, di vivere una vita completa. Prospettiva affascinante e sicuramente feconda di ulteriori approfondimenti, ma cionondimeno macchiata dalla tipica mancanza di coerenza propria delle ipotesi teologiche. Infatti, se per Gesù questa tensione alla perfezione era importante che venisse intesa nella maniera prima definita, perché non assicurarsi che i discepoli non fraintendessero? Perché lasciare spazio ad ogni genere di infruttuoso fanatismo morale utilizzando una parola tanto assolutistica quale perfezione?

Cambiando saggio, mi capitò di leggere un libro (2) contenente un'interessante riflessione attorno alle sfaccettature di senso dei termini amore e compassione (quest'ultima da intendersi nel senso orientale del termine). Si diceva che se l'amore è un concetto più puro ed esigente, è allo stesso tempo spesso irrealizzabile. Al contrario della compassione, la quale essendo una forma di intrinseca gentilezza che guida l'agire nel mondo, è capace di penetrare nel cuore umano con una virtuosa naturalezza. 
La differenza è notevole, dacché se una tende alla perfezione assoluta, a discapito dell'attuabilità e della concretezza, l'altra, accontentandosi e agendo senza aspettative, è capace di scaldare molti più cuori che un iperbolico discorso sulla Agape cristiana al quale doversi sforzare di credere. 
La ragione di tutto ciò, è a mio modesto parere, piuttosto chiara: la maggior parte delle persone che sono obbligate a lavorare per vivere, non sente il bisogno di mirabolanti rivelazioni mistiche, bensì di più accessibili dimostrazioni di umanità ed empatia. Questo conferma indirettamente la teoria dell'incipit d'autore di questo articolo: constatando il livello di schifo che può raggiungere la vita, ogni piccola virtù dimostrata, specialmente se gratuita, non può che essere percepita come immensa da parte di chi ne beneficia.

Per quanto possa sembrare banale ribadirlo, non è cercando ai confini dell'universo visibile o in un mondo dietro il mondo che si trovano amici e compagni di viaggio, bensì nelle persone in carne ed ossa che percorrono più o meno faticosamente le stesse strade calpestate da noi, durante gli sfuggevoli attimi di vita che ci sono capitati.


il Cercatore di Senso

riferimenti:
(1) Pensieri XXXII, Giacomo Leopardi.
(2) Il monaco e il filosofo, Jean-Francois Revel e Matthieu Ricard.