sabato 14 novembre 2020

Teomisoginia

Una delle questioni filosofiche e teologiche più scomode per i monoteismi, specialmente quelli di stampo abramitico (ebraismo, cristianesimo e islam per intenderci), rimane tuttora il perché e il percome esista la donna. Siamo ancora costretti a pronunciarci, prendendo parte in una discussione che almeno sul piano della legge civile non dovrebbe più esistere. Se infatti il pensiero è libero, non lo è altrettanto l'incitamento alla violenza e alla repressione di genere. 

Andrò quindi a riflettere su un celebre passaggio di Tommaso d'Acquino, utilizzato spesso dai critici della religione Cattolica per sostenere come le radici di questa siano profondamente misogine. Non pretendo di poter effettuare un'analisi approfondita, non ne ho né le competenze né il tempo; mi limiterò pertanto a ragionare su ciò che è stato scritto di proprio pugno dal teologo in questione. 
Già a questo punto gli strenui difensori della Fede potrebbero cercare di porre in dubbio la legittimità di questo approccio utilizzando una delle più comuni fallacie logiche utilizzabili, conosciuta come Ad Hominem. Questa consiste nel controbattere la tesi avversaria non con un argomento di segno opposto, bensì con il denigramento dell'avversario stesso. Per esempio, si potrebbe addurre che chi non ha studiato in seminario non abbia il diritto di parlare di religione. Ebbene, questo atteggiamento è fortemente criticabile da un triplice punto di vista:
  • se un teologo vuole intervenire nel dibattito pubblico ha il dovere di adeguare il proprio linguaggio a quello degli avversari. Se non ne è capace allora non ci sono le condizioni per un dialogo costruttivo.
  • in una dialettica razionale bisogna concentrarsi sugli argomenti e non sugli argomentatori. Se è un'opinione è espressa in maniera intelligibile si ha il dovere di prenderla sul serio, indipendentemente dalle caratteristiche dell'interlocutore.
  • specularmente al punto precedente, bisogna stare attenti a non prendere troppo sul serio la propria figura. Se si pensa di avere ragione perché si sa usare un linguaggio ricercato, ricco di latinismi e riferimenti a scritti di altri autori, significa che non si hanno compreso le basi del dialogo socratico. Questo si basa infatti sulla continua tensione alla verità, applicata tramite un discorso intellettualmente onesto e pertinente all'oggetto di discussione. Tutta la cultura di questo mondo a nulla serve se invece che aiutare a focalizzarsi sul punto della questione, ubriaca la discussione ampliandola a dismisura, facendola così deviare dall'essenziale. Si ha quindi il dovere di ragionare, tutto il resto può aiutare ma non deve prendere il sopravvento. 
fatta questa premessa, riporto il passo acquiniano che andrò ad analizzare sommariamente:
"Era necessario che in aiuto dell’uomo, come dice la Scrittura, fosse creata la donna: e questo, non perché gli fosse di aiuto in qualche altra funzione, come dissero alcuni, poiché per qualsiasi altra funzione l’uomo può essere aiutato meglio da un altro uomo che dalla donna, ma per cooperare alla generazione. Vi sono infatti dei viventi, che non hanno in se stessi la virtù attiva di generare, ma sono generati da un agente di specie diversa; e sono quei vegetali e quegli animali, che, privi di seme, vengono generati, in una materia adatta, dalla sola virtù attiva dei corpi celesti. – Altri invece possiedono unitamente la virtù attiva e quella passiva della generazione, e sono le piante che nascono dal seme. 
Infatti nelle piante non c’è funzione vitale più nobile della generazione: perciò è giusto che la virtù attiva della generazione si trovi in esse sempre unita a quella passiva. – Invece negli animali perfetti la virtù attiva della generazione è riservata al sesso maschile, e la virtù passiva, al sesso femminile. E siccome gli animali hanno delle funzioni vitali più nobili della generazione, negli animali superiori il sesso maschile non è sempre unito a quello femminile, ma solo nel momento del coito; come per indicare che il maschio e la femmina raggiungono nel coito quella unità che nella pianta è perpetua per la fusione dell’elemento maschile con quello femminile, sebbene nelle varie specie prevalga ora l’uno ora l’altro. – L’essere umano poi è ordinato a una funzione vitale ancora più nobile, cioè all’intellezione. A maggior ragione dunque si imponeva per lui la distinzione delle due virtù, mediante la produzione separata dell’uomo e della donna, i quali tuttavia si sarebbero uniti nell’atto della generazione. Per questo, dopo la creazione della donna, la Scrittura aggiunge: “Saranno due in una sola carne”.
 Rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole. Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, p. es., dai venti australi che sono umidi, come dice il Filosofo. Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l’ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l’autore universale della natura. Perciò nel creare la natura egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina." (1)

Il passo citato è stato estrapolato dal seguente articolo: https://www.uccronline.it/2013/01/13/il-falso-pensiero-attribuito-a-tommaso-daquino/, nel quale l'autore con i salti mortali tipici dell'apologeta cristiano cerca di difendere Tommaso, e di conseguenza la C.C. nel suo insieme, dalle accuse di misoginia. Io ho poi provveduto a barrare una parte del testo così da porre in evidenza l'essenza del pensiero acquiniano in merito. Proviamo a leggere solo le parti lasciate visibili: 

"Era necessario che in aiuto dell’uomo, come dice la Scrittura, fosse creata la donna: e questo, non perché gli fosse di aiuto in qualche altra funzione, come dissero alcuni, poiché per qualsiasi altra funzione l’uomo può essere aiutato meglio da un altro uomo che dalla donna, ma per cooperare alla generazione[...] la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l’ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l’autore universale della natura. Perciò nel creare la natura egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina."

Cosa si può constatare da questo breve ritaglio? Che di elementi per accusare di misoginia il pensiero di Tommaso ve ne sono a sufficienza. Il suo pensiero è infatti chiarissimo; afferma che la donna è stata creata da Dio per garantire la prosecuzione della specie. Nessuna lode alle caratteristiche femminili, nessuna riflessione che porti a superare il vincolo sessuale che impedisce di vedere la donna innanzitutto come persona, esattamente come l'uomo, e solo secondariamente come femmina. Nessuna traccia di affetto, né di amicizia, solo generazione. Inutile fare notare che affermare che la procreazione sia lo scopo principale della donna, se non addirittura l'unico, sia esageratamente sessista. Come se non bastasse, si afferma pure che in una qualunque funzione l'uomo riesce meglio della donna. 
Leggendo queste frasi risulta davvero difficile capire come il cattolico femminista di turno possa difendere l'Acquino in una qualsivoglia maniera, se non ovviamente tramite l'arrampicamento estremo sugli specchi, sempre possibile al fedele difensore della dottrina.

Ora veniamo alla parte precedentemente ignorata:
"[...] Vi sono infatti dei viventi, che non hanno in se stessi la virtù attiva di generare, ma sono generati da un agente di specie diversa; e sono quei vegetali e quegli animali, che, privi di seme, vengono generati, in una materia adatta, dalla sola virtù attiva dei corpi celesti. – Altri invece possiedono unitamente la virtù attiva e quella passiva della generazione, e sono le piante che nascono dal seme. 
Infatti nelle piante non c’è funzione vitale più nobile della generazione: perciò è giusto che la virtù attiva della generazione si trovi in esse sempre unita a quella passiva. – Invece negli animali perfetti la virtù attiva della generazione è riservata al sesso maschile, e la virtù passiva, al sesso femminile. E siccome gli animali hanno delle funzioni vitali più nobili della generazione, negli animali superiori il sesso maschile non è sempre unito a quello femminile, ma solo nel momento del coito; come per indicare che il maschio e la femmina raggiungono nel coito quella unità che nella pianta è perpetua per la fusione dell’elemento maschile con quello femminile, sebbene nelle varie specie prevalga ora l’uno ora l’altro. – L’essere umano poi è ordinato a una funzione vitale ancora più nobile, cioè all’intellezione. A maggior ragione dunque si imponeva per lui la distinzione delle due virtù, mediante la produzione separata dell’uomo e della donna, i quali tuttavia si sarebbero uniti nell’atto della generazione. Per questo, dopo la creazione della donna, la Scrittura aggiunge: “Saranno due in una sola carne”.
Rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole. Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, p. es., dai venti australi che sono umidi, come dice il Filosofo. Rispetto invece alla natura nella sua universalità [...]"
Come si può evincere dalla lettura attenta del presente passaggio, si può constatare che questo consiste sostanzialmente in un'interpretazione teologica degli argomenti "scientifici" aristotelici. Il virgolettato è per ricordare come il pensiero pre-galileano non possa essere considerato scientifico a tutti gli effetti, almeno non per come oggi lo si definisce. Questa confusione è ovviamente cara all'apologia cattolica, in quanto viene regolarmente sfruttata per screditare le pretese scientifiche del mondo moderno. Il ragionamento è di questo tenore "se la scienza di mille anni fa era approssimativa ed è stata confutata da quella seguente, allora succederà lo stesso anche a quella odierna. Quindi l'importante è conservare la Fede, confidando che il sapere degli uomini tornerà alla polvere prima o poi". Quel che questo pensiero non coglie è che la scienza moderna, non solo è ben conscia di poter essere contraddetta da future scoperte, ma soprattutto sa che l'esperimento è ciò che la contraddistingue dall'antica episteme greca. Non un qualunque ragionamento razionale è scienza, solo quello supportato da evidenze sperimentali, tutto il resto è filosofia. 
Andando oltre a questo sempre pertinente inciso, Non posso far altro che notare che il pensiero di Tommaso non solo non sembra argomentare in maniera convincente in favore della "giustezza teologica" della riproduzione sessuata, ma pare pure contraddirsi. Infatti sembra prima sostenere la necessità che la procreazione debba avvenire grazie alla dualità maschio/femmina, per poi affermare che anche a livello biologico (oltre che ontologico) la femmina sia un errore di natura. Vero che l'ultimo paragrafo è attribuibile indirettamente ad Aristotele stesso (nel paragrafo è citato come Il Filosofo) ma ciononostante sembra venire ripreso a piene mani da Tommaso. Ora, non sono in grado di affermare ciò con certezza, potrebbe infatti esserci un passaggio contrario a questa conclusione nella summa teologica, ma rimane il fatto che affermare che all'interno della dottrina cattolica esista uno substrato misogino è assolutamente legittimo. 


il Cercatore di Senso

riferimenti:
(1) Summa teologica, Tommaso d'Acquino.

sabato 31 ottobre 2020

È bene essere consapevoli?

"Nella contemplazione della mente, il praticante contempla i propri stati mentali. [...] Il praticante riconosce ed è conscio di ogni stato mentale che si produce attimo dopo attimo." (1)
È davvero sempre utile adoperarsi per rimanere concentrati e consapevoli? Siddharta riteneva di sì. Ma se è così facile perdersi nelle faccende o nei meandri della nostra mente non è forse che la natura voleva fosse proprio così?

Per tentare di rispondere spostiamoci dall'India del 500 avanti Cristo alla Grecia di due secoli dopo, così da scomodare Epicuro, che di piacere ne sapeva tanto da fondare una filosofia su di esso. 
Questi cercò infatti di descrivere i metodi e i passi necessari per godersi una vita gioiosa. Uno dei caposaldi del suo pensiero era la convinzione che una condizione essenziale per poter conservare il piacere derivante da un'esperienza fosse la rarità del piacere stesso.

Facciamo quindi un ulteriore salto in avanti di più di duemila anni, andando ad osservare la moderna teoria economica che definisce il principio dell'utilità marginale decrescente, ovvero quella legge empirica che descrive il fenomeno per cui la soddisfazione derivante dal consumo di un bene o di un servizio diminuisce all'aumentare del consumo stesso.

Pare quindi che in due millenni questa norma non scritta non sia mutata: la quantità di piacere percepito continua ad influenzarne direttamente la qualità.

Se ciò è vero, allora ogni sistema che si sbilancia troppo energeticamente verso un dato aspetto od una data attività, come in questo caso la Mindfulness e la meditazione, non è forse da rifiutare proprio perché non rispettante il vincolo della rarità del piacere offerto?

Di conseguenza viene da chiedersi se Buddha fosse a conoscenza di tale aspetto della psiche umana.

Se in un primo momento potrebbe sorgere un lecito dubbio in merito, osservando più fondo, così da seguire il consiglio del Buddha stesso, possiamo accorgerci di come la consapevolezza generata da una mente che dimora nel presente permetta un effettivo accrescimento della qualità del momento vissuto. 

Infatti, il rendersi pienamente conto di ciò che sta succedendo, dalla caduta di una foglia autunnale al sole che disegna ombre sugli alberi ormai spogli, permette di rallentare, così da evitare di saturarci di piacere troppo in fretta, finendo quindi per annoiarci. Come il nostro cuore deve sì lavorare energeticamente ma senza sovraccaricarsi per evitare scompensi e patologie, la nostra mente dovrebbe sì tendere alla soddisfazione ma senza agitarsi ed intorbidirsi eccessivamente.

Inoltre, vi è da considerare che la Mindfulness non coincide con la pratica della meditazione, questa è da considerarsi piuttosto come l'attività principale dal punto di vista comunitario, ossia per ciò che riguarda la collettività dei praticanti.

Infatti, la presa di consapevolezza che permette di sperimentare pace può avvenire in molteplici momenti della giornata come nelle più svariate attività.
La maggior parte dei momenti di profonda soddisfazione che possono capitare nella vita sono normalmente possibili proprio grazie ad uno stato mentale di concentrazione assoluta; dal piacere derivante dal praticare un hobby al bliss derivante dall'innamoramento.

Per concludere, il gesto del prendere fiato, sia materialmente che figurativamente, provoca una dilatazione del tempo percepito, allontanando così il momento in cui la soddisfazione sarà ormai così tanto abituale da rendersi insapore a noi, esseri sempre alla ricerca di nuove sensazioni.





Il Cercatore di Senso

riferimenti:
(1) Vita di Siddharta il Buddha, Thich Nhat Hanh, Ubaldini editore.

domenica 26 luglio 2020

l'inutilità della filosofia

La filosofia, in ultima istanza, non può che fallire nell'offrire il suo bene più prezioso, la felicità, a chi non si sa accontentare del forse. 
Il motivo è semplice: la filosofia cerca la verità e questa per vantare la V maiuscola deve essere generale, ma l'uomo valuta soggettivamente; è un microcosmo in un macrocosmo e quindi non gli può bastare una risposta preconfezionata. Certamente ognuno può ricorrere al pensiero altrui per imbastire l'ossatura delle proprie credenze ma la felicità individuale rimane inesorabilmente terreno da esplorare personalmente. Il che dà così ragione al vecchio Aristotele, il quale dichiarò fieramente l'inutilità della filosofia. Ma se le cose stanno realmente così, perché in tanti si sono stracciati le vesti per essa?


Il Cercatore di Senso

domenica 19 luglio 2020

pensieri di guerra


Il troppo pensiero spezza, rompe e lacera. Per questo al mondo non piace.

Il mondo vuole respirare, non affannarsi.

Il mondo ha bisogno di pace, non di guerra.


Il Cercatore di Senso

sabato 2 maggio 2020

Il film della vita

Curiosando nei gruppi social riguardanti le religioni orientali mi capita spesso di imbattermi nella seguente "verità di fede": è impossibile pensare che il nostro corpo sottile (leggasi anima, spirito, psiche a seconda delle diverse tradizioni e confessioni) vada incontro all'annientamento. Ciò che a me, convinto sostenitore della ragione, suona più strano è il fatto che a cuor leggero si pronunci la parola impossibile. Una convinzione così granitica dovrebbe essere supportata da un'ottima argomentazione e invece viene spesso accompagnata da una vastissima serie di idee e convinzioni che possono tutto tranne che sopportare il peso dell'assoluto. Qualche frase che mi è stata rivolta giusto per dare un'idea del tenore del discorso medio:
  • il buddha era molto saggio, quindi mi fido di lui (anche se in teoria il buddha stesso affermava che non gli si dovesse credere per fede);
  • il buddhismo è aperto al confronto con la scienza e questa non sa spiegare come nasce la mente cosciente quindi significa che la scienza è inutile;
  • quel tale scienziato ha spiegato come la mente non possa morire. Leggi i suoi libri se vuoi capire;
  • ci sono molte persone che raccontano le loro vite passate;
  • il mondo materiale è illusione, quindi l'unica scienza che può dirci la verità è quella indicata dai santi illuminati. Il fatto che tu voglia capire razionalmente dimostra che sei un ateo materialista incapace di vedere al di là del tuo credo miope.
Inutile dire che i precedenti argomenti non solo sono insufficienti per vincere il mio sano scetticismo di fondo, bensì sono ancora più assurdi quando si ritiene che bastino per provare che la vita oltre la morte sia una certezza incontestabile. Ora non voglio entrare nel merito delle prove proposte, lasciando questo compito ad un altro articolo, bensì andare direttamente al punto della questione, ossia dimostrare come sia assolutamente ragionevole presupporre che non esista una vita oltre la morte. 

Già qui sono costretto a fermarmi per fare un'importante precisazione: spesso mi viene fatto notare che la scienza ha sbagliato in molte occasioni e che pertanto non è saggio ritenerla affidabile. L'unica soluzione è quindi quella di dedicarsi interamente allo spirito e alla pratica (ossia meditazione e preghiera) finché non si raggiunge la certezza desiderata. A tale contestazione faccio sempre notare (venendo raramente capito) che a questo livello del discorso non bisogna guardare tanto alle prove, bensì soprattutto riflettere attorno alla ragionevolezza di una credenza. Io sono scettico nei confronti della reincarnazione non perché non ci siano prove scientifiche a favore, bensì perché già dal punto di vista razionale è una teoria contraddittoria che fa acqua da molte parti. Questo ovviamente non significa che creda di avere assolutamente ragione, al contrario, sfido l’interlocutore a trovare un buon motivo che mi convinca a cambiare idea. In tal caso sarò ben felice di approfondire il discorso, magari anche attraverso la pratica di preghiere e meditazioni.

Detto questo, la riflessione che propongo, nonostante derivi direttamente da un discussione avuta con due seguaci buddhisti, la si deve però intendere di più ampio respiro, capace quindi di rispondere anche ai credenti di altre religioni che fanno ragionamenti simili. Di seguito si tenta quindi di dimostrare la ragionevolezza dell’ipotesi che la vita sia una e una soltanto.

Considerazioni e domande:
punto primo: dire che ciò che è è e ciò che non è non è significa utilizzare due parole aventi in questo contesto un significato logico preciso che non può assolutamente venire frainteso. Il nulla non deve essere inteso come il vuoto, il buio o la morte, bensì semplicemente come il contrario dell’essere: se premendo ON si ha l’essere, premendo OFF si ha il nulla. Questo significa che essere e non essere sono contrapposti come lo sono il bianco e il nero, quindi l’essere non può diventare il non essere e viceversa.

A questo punto si ha la prima domanda da rivolgere al proprio interlocutore: quando dici che noi siamo e non possiamo diventare nulla intendi dire che solo l'uomo o in generale ogni essere/ente presente nel cosmo sia eterno? Se la risposta è solo l'uomo allora si ha già la prima contraddizione, perché non vi è alcun motivo per pensare che tra uomo e bestie ci sia una differenza ontologica, ossia incolmabile, che giustifichi un trattamento differenziato in merito alla logica elementare enunciata precedentemente. Una risposta del genere presuppone il credere ad un'anima o qualcosa del genere ma così facendo si svela come la propria convinzione sia basata sulla fede che esista qualcosa di impalpabile ed eterno, non su un ragionamento inattaccabile. L’onere dell’argomentazione e della conseguente prova a favore dell’esistenza dell'anima rimane in capo al credente, non allo scettico.

punto secondo: se la candela rappresenta la materia che esiste e la fiamma è l'agire del tempo sulla materia, è ammissibile (ossia non è assurdo) pensare che una volta che la fiamma abbia consumato la candela questa cessi di esistere? Coerentemente bisognerebbe rispondere di no: la candela non cessa di esistere, è solo stata completamente sciolta dal fuoco, trasformandosi in gas tramite la combustione. Poeticamente potremmo dire che la candela ora vive nell’aria. Però nonostante questo, bisognerà ammettere che non si ha più né la candela né la fiamma nella forma che conosciamo.

Conclusioni:

L'apparire è qualcosa di diverso dal nascere e dal morire, se questi ultimi termini sono intesi come il diventare qualcosa o il diventare nulla. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. In questi termini non si può morire (diventare nulla) perché non si è mai nati (diventati qualcosa). Si è semplicemente parte di un fenomeno complesso (combinazione di materia ed energia) che appare in una forma particolare per un certo lasso di tempo.

Uno dei limiti Certi (con la C maiuscola perché è una delle poche certezze inconfutabili tutt'ora rimaste intatte dopo il passaggio travolgente della filosofia) è che nessun dio onnipotente può annullare ciò che è già apparso. Potrebbe sì eliminare ogni forma dell'esistenza, potrebbe pure farci perdere la memoria di ciò che è stato ma comunque non potrebbe annullare il mio sperimentare il tocco dei tasti nel preciso momento in cui sto scrivendo questo articolo. Questa è la prova del nove del ragionamento da cui siamo partiti. Affermare che l’essere è e il nulla non è è talmente evidente da costituire persino un limite per Dio. Non c'è mistero di fede o metarazionalità che tenga, ciò che è stato è stato.

Ora, il punto della questione non è tanto essere, non essere, questo è il dilemma, bensì comprendere che è errato pensare che il tempo sia il criterio per determinare l'esistenza o meno di qualcosa. L'uomo è portato a ragionare così perché il tempo è una delle dimensioni essenziali che modella la sua percezione del mondo, così come la larghezza e l'altezza. Ciò non basta però per ritenere che lo scorrere degli attimi sia quel discrimine che permette di affermare che qualcosa esiste e poi non più.
Il singolo istante temporale è come un fotogramma inquadrato dall’obiettivo di un proiettore cinematografico durante la visione di un film. Lo scorrere del tempo dà senso al film ma né lo crea né lo distrugge, infatti il film può sempre essere riavvolto da capo e fatto ripartire. Nel caso, si passerà una seconda volta sullo stesso fotogramma già apparso in precedenza. Se lo si riavvolge infinite volte è perché si è il serpente a cui il pastore del Così parlò Zarathustra stacca la testa a morsi.

Battute a parte, per ciò che è ragionevole pensare date le nostre conoscenze attuali, non c'è motivo di credere che esista un qualcuno o un qualcosa capace di riavvolgere il film della nostra vita. Il fatto che sia teoricamente possibile non significa che lo sia anche in pratica. Se il film proiettato venisse lasciato a marcire a tempo indeterminato senza che qualcuno lo guardasse nuovamente, nessun fotogramma verrebbe mai più visto, e quindi non apparirebbe più. 
Ora dovrebbe essere chiaro che nascere e morire possono avere un senso diverso da quello estremo delineato precedentemente in senso metafisico. Nascere non significa passare dal nulla al qualcosa, ma semplicemente apparire, finire ripreso dall’obiettivo che è il tempo; morire significa il contrario, ossia l’uscire dall’inquadratura.

Se i ragionamenti fatti fino a ora mostrano che ipotizzare che non esista la vita oltre la morte sia assolutamente ragionevole, non si è però dimostrato che effettivamente sia questa la verità. Per quel che ne sappiamo potrebbe davvero esserci un dio che premia e castiga gli uomini nell'aldilà, ma questa è tutta un'altra storia, una storia che non è raccontata dal libro della natura e che pertanto rimane invisibile agli occhi della ragione.


Il Cercatore di Senso

sabato 11 aprile 2020

Social Sofismo

Qualche giorno fa incappai in un post, condiviso su un famoso social network, dal titolo "dagli al complottista". Titolo intrigante, controcorrente, mi soffermai quindi a leggerlo. 
Il post era una sorta di elenco di casi in cui la stampa ufficiale aveva toppato o volutamente nascosto la verità, condito della retorica morale tipica dei social: criticare la massa da dietro lo schermo senza mai puntare il dito contro qualcuno nello specifico, così da mostrarsi intelligente e guadagnare qualche like.
Pur non essendo entusiasta della tendenza alla ricerca spasmodica del plauso anonimo del web, non avevo nulla da criticare fin qui. Il problema nacque però nel momento in cui, come risposta alle mie osservazioni, l'intellettuale virtuale si indignò, evidentemente scocciato per il non aver ricevuto il tanto agognato thumb up.

Ora, non che ce l'avessi con la sostanza del suo post in sé. In fondo non aveva detto nulla di deprecabile e anzi tutto sommato era pure condivisibile. Cercai però di fargli capire che quando si scrive, se non è proprio vero che l'abito fa il monaco, poco ci manca. Sicuramente è meglio prediligere il contenuto alla forma, soprattutto se quest'ultima è intesa solo come l'insieme dei formati e dei colori di layout. Vi è però anche un altro tipo di forma, molto più importante, ossia quella che si potrebbe chiamare estetica letteraria.

A cosa mi riferisco? Con estetica in campo letterario, intendo la struttura e i toni utilizzati nella produzione scritta, compreso il linguaggio non verbale. 
Come? linguaggio non verbale in un testo? No, non sto impazzendo, non si tratta di un vero linguaggio non verbale. Piuttosto, come il corpo umano comunica più o meno intenzionalmente tramite gesti, sudore, colori, eccetera, anche uno scritto può dire più di quello che semplicemente offre il suo contenuto. Quindi non è possibile ignorare completamente la forma dello scritto che si ha tra le mani.

Il titolo del post "dagli al complottista" sottintendeva chiaramente che lo scrittore si identificasse come tale. Al che scaturì la mia critica: "possiamo essere d'accordo su tutti i dati che mi riporti e in generale sul redarguire gli ingenui che pendono dalle labbra dei telegiornali, ma da qui al passare all'estremo opposto è tutto un altro paio di maniche."
Provai quindi ad utilizzare due esempi per fargli capire qual era il problema a mio avviso:
  • Soprattutto nel secolo scorso, il buon (si fa per dire) Friedrich fu accusato di essere stato un teorico del nazismo. Ricerche più recenti hanno invece posto obiezioni al riguardo, rilevando come sia stata la sorella Elisabeth a vendere l'immagine del fratello nazista per interessi personali. Ora, qualunque sia la verità (ancora dibattuta tra gli storici), è innegabile che Nietzsche abbia offerto su un piatto d'argento la possibilità di farsi fraintendere. Leggendo una qualunque delle sue opere, un semplice soldato delle SS non avrebbe avuto difficoltà a trovare spunti interessanti per giustificare le proprie convinzioni. Questo non comporta però che sia lecito accusare il filosofo di una responsabilità intenzionale. Siamo infatti sul labile confine tra doloso e colposo. Il genio che dimora nello stile nicciano presenta chiaramente un lato oscuro, confermando così l'ipotesi che anche la forma conta. Quindi, a meno che non si voglia scrivere appositamente in maniera ermeneutica, è opportuno essere rigorosi tanto nel contenuto quanto nello stile.
  • Ragionando sulla democrazia, è possibile trovare innumerevoli aspetti criticabili, sia sul piano teorico che concreto. Concludere però che sia opportuno tornare ad un regime totalitario significa fare il passo più lungo della gamba. Infatti, il ragionamento: "la gente è stupida, quindi la democrazia non funziona, quindi meglio il Duce" non è propriamente lapalissiano, perché confutare una teoria non equivale a provare il suo opposto. Quindi, la pagina social "aboliamo il suffragio universale" va benissimo come satira e come spunto di riflessione, ma non altrettanto se utilizzata come manifesto di un partito politico. Il post in questione sembrava invece essere basato proprio su un ragionamento simile: "la gente che crede nell'informazione mainstream è ingenua. I complotti sono ovunque, quindi non si possono negare, quindi non possiamo non essere complottisti."
Come risposta al mio intervento (portato avanti attraverso diversi commenti), l'intellettuale dissidente, rigirò la frittata, obbiettando che avevo frainteso il senso del suo post. Ammise almeno che forse, ciò fosse dovuto a sua negligenza. Concluse quindi che in realtà lui voleva dire come sia importante pensare in maniera critica e non farsi ingabbiare dagli schemi.
Invece, io conclusi come sia inutile cercare di discutere con persone incapaci di argomentare le proprie idee espresse liberamente su uno spazio pubblico.

Molti non riescono a capire che quando si condividono pensieri forti, specie se con sconosciuti, è necessario armarsi, non di offese e di insulti, ma di ottime ragioni da vendere. Uno dei motivi per cui il processo democratico è scadente è proprio perché il cittadino comune non è abituato a combattere razionalmente per le proprie idee.
Come si può spesso constatare con rammarico negli interventi politici, non è espressione di buona intelligenza affermare A e poi, una volta messo alle strette, eccepire il fraintendimento generale così da potersi spostare su B. E' come se verso la fine di un gioco, il probabile perdente, rovesciasse la tavola così da poter rivendicare il pareggio.

Qual è la morale di questo breve racconto? Non si ipotizza certo di impedire ai tordi di scrivere ciò che gli passa per la testa, bensì, semplicemente, si rivendica il diritto di poter sfanculare pubblicamente chi non è all'altezza delle idee che promuove.
Questo non è l'esercizio di un sadico, al contrario, è il sano contraddittorio che deve esistere in una società perché questa progredisca. Discutere civilmente non può infatti far altro che migliorare il livello generale di razionalità e cultura del mondo nel quale viviamo. Miglioramento che a sua volta porta maggior libertà a tutti, perché riconoscere le pecche dei complotti e delle ideologie strampalate che saturano i mass media permette di metterne a nudo i seguaci e un fanatico nudo è sempre meno pericoloso di uno in armatura.


il Cercatore di Senso

sabato 28 marzo 2020

sulla perfezione dell'imperfetto

"Poi vedendo come tutto è imperfetto, e persuandedosi che non v'è di meglio al mondo di quel poco buono che essi disprezzano. (...) poco a poco (...), non più al perfetto, ma al vero, si assuefano a perdonare liberamente, e a fare stima di ogni virtù mediocre." (1)
Non è ragionevole cercare di correggere il proprio e l'altrui in ogni minimo dettaglio. Innumerevoli sono infatti le manchevolezze e un eccessivo zelo nel cercare di creare il mondo ideale può condurre verso una china pericolosa. Ci si viene a trovare su una strada ripida, che si stringe sempre più che ci si avvicina alla meta, offrendo così innumerevoli occasioni per cadute accidentali giù dai ripidi pendii che si vanno a creare.
Osservando a fondo, ci si può accorgere che la maggior parte dei problemi che esistono nelle società umane non dipendono tanto dalle piccole manchevolezze di ognuno, bensì dall'assenza, individuale e collettiva, di una tensione verso il bene. Se questo venisse perseguito maggiormente, molte travi verrebbero rimosse e ancor più pagliuzze perdonate.

La tensione alla perfezione è l'analogo in campo morale della tensione verso l'assoluto in filosofia. E come quest'ultima, si tratta verosimilmente di un'utopia irrealizzabile e forse nemmeno sperabile. Infatti, non sono proprio le spinte transumaniste odierne ad aprire concretamente la possibilità alla creazione di esseri esenti da imperfezioni? Eppure, è proprio questo profondo movimento verso l'oltreuomo che minaccia di più la persona in carne ed ossa. Oramai è evidente che la Tecnica, se la si osserva da un certo punto di vista, è mezzo e fine allo stesso tempo, il che comporta che lo stesso concetto di Uomo sia superabile.

In un breve periodo passato in un monastero, mi capitò di lavorare nell'orto assieme ad un saggio e alquanto eterodosso monaco, il quale mi confidò che percepiva il proprio modo di vivere come la forma più in sintonia con la vita degli antichi pensatori greci. Inoltre, condivise con me la tesi che il motivo per cui questi fossero un popolo di filosofi è da attribuirsi alle zone geografiche più miti nelle quali vivevano. Queste imponevano meno sacrifici connessi alla sopravvivenza, concedendo così maggior tempo per dedicarsi alla semplice contemplazione. 
Pur non trovandomi d'accordo sotto altri aspetti essenziali, non posso che ammettere che in fondo, quell'eccentrico monaco non fosse lontano dal vero. E' fondamentale che al mondo esistano ancora persone volenterose nell'affaccendarsi nelle più semplici esperienze di vita comunitarie, così da scuotere le nostre più granitiche e irrazionali convinzioni nella stabilità della società odierna.
Certo, la differenza di veduta c'è, dato che a mio parere, l'importanza dell'approccio scelto dal monaco sarebbe ugualmente valido anche senza l'aspetto di Fede che l'accompagna. Se invece di essere un monastero cattolico ecumenico (che curioso accostamento), fosse una comune epicurea, nella sostanza, poco cambierebbe. Parafrasando un pensiero di Bertrand Russell, se il monaco in questione è riuscito a trovare la serenità agognata, dubito che sia davvero a causa della preghiera comunitaria. Piuttosto penso che sia la qualità e la tranquillità di una vita vissuta sperimentando la soddisfazione di appartenere ad una comunità coesa nella quale potersi sentire al proprio posto, a fare la differenza.
Lo stesso monaco avanzò anche un'altra teoria. Secondo lui, l'invito a perseguire la perfezione fatto da Gesù non è da intendere alla lettera, bensì nel senso più ampio di portare a compimento, di vivere una vita completa. Prospettiva affascinante e sicuramente feconda di ulteriori approfondimenti, ma cionondimeno macchiata dalla tipica mancanza di coerenza propria delle ipotesi teologiche. Infatti, se per Gesù questa tensione alla perfezione era importante che venisse intesa nella maniera prima definita, perché non assicurarsi che i discepoli non fraintendessero? Perché lasciare spazio ad ogni genere di infruttuoso fanatismo morale utilizzando una parola tanto assolutistica quale perfezione?

Cambiando saggio, mi capitò di leggere un libro (2) contenente un'interessante riflessione attorno alle sfaccettature di senso dei termini amore e compassione (quest'ultima da intendersi nel senso orientale del termine). Si diceva che se l'amore è un concetto più puro ed esigente, è allo stesso tempo spesso irrealizzabile. Al contrario della compassione, la quale essendo una forma di intrinseca gentilezza che guida l'agire nel mondo, è capace di penetrare nel cuore umano con una virtuosa naturalezza. 
La differenza è notevole, dacché se una tende alla perfezione assoluta, a discapito dell'attuabilità e della concretezza, l'altra, accontentandosi e agendo senza aspettative, è capace di scaldare molti più cuori che un iperbolico discorso sulla Agape cristiana al quale doversi sforzare di credere. 
La ragione di tutto ciò, è a mio modesto parere, piuttosto chiara: la maggior parte delle persone che sono obbligate a lavorare per vivere, non sente il bisogno di mirabolanti rivelazioni mistiche, bensì di più accessibili dimostrazioni di umanità ed empatia. Questo conferma indirettamente la teoria dell'incipit d'autore di questo articolo: constatando il livello di schifo che può raggiungere la vita, ogni piccola virtù dimostrata, specialmente se gratuita, non può che essere percepita come immensa da parte di chi ne beneficia.

Per quanto possa sembrare banale ribadirlo, non è cercando ai confini dell'universo visibile o in un mondo dietro il mondo che si trovano amici e compagni di viaggio, bensì nelle persone in carne ed ossa che percorrono più o meno faticosamente le stesse strade calpestate da noi, durante gli sfuggevoli attimi di vita che ci sono capitati.


il Cercatore di Senso

riferimenti:
(1) Pensieri XXXII, Giacomo Leopardi.
(2) Il monaco e il filosofo, Jean-Francois Revel e Matthieu Ricard.

sabato 8 febbraio 2020

the Jesus Pride

Il 25 gennaio 2020 si è tenuto a Roma il cosiddetto Christian Day, una manifestazione in difesa della Fede cristiana dalle vessazioni in genere e dalle blasfemie che vengono perpetuate, anche pubblicamente.
Al Jesus Pride sono accorsi fedeli da ogni dove, con armi, bagagli e idee lungimiranti: omosessualità da bandire, incendi precursori dell'apocalisse e nichilismo sublimato in chiave religiosa.

Ora, il problema di manifestazioni del genere non è il fatto di professare idee che per altri sono assurde. Infatti, questa è una caratteristica del vivere in una società libera e plurale. Quando è possibile instaurare un contraddittorio civile, la società è sana, e in fondo, fare filosofia è anche questo. È vero che filosofia vuol dire letteralmente "amore per il sapere" ma sin dall'antico dibattito tra eraclitei e parmenidei, è sempre stata anche discussione e scontro intellettuale.

Se invece il contraddittorio non ci fosse, allora la situazione sarebbe ben più grave, perché una società teocratica è una bomba pronta ad esplodere. Fondare la coesione sociale non su valori etici condivisibili in quanto persone, bensì in quanto credenti, significa creare una società di lobotomizzati e di potenziali rancorosi infelici. Quest'ultimi saranno quelli che avranno dei dubbi nei confronti del potere secolare-spirituale e che pertanto si sentiranno soffocare in una enorme setta quale è una società teocratica. 
Detto questo, si potrebbe convenire che fintanto che è possibile per un ateo diventare cristiano (anche eretico, ossia non necessariamente appartenente alla Chiesa dominante) liberamente e viceversa, il problema sociale-religioso non sussiste.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che un bambino cresciuto in una famiglia rigidamente osservante e chiusa alle diversità sia un problema sociale. Pur potendo condividere in linea teorica un ragionamento simile bisogna però rendersi conto dei limiti che una società, agendo come istituzione, deve rispettare nei confronti della libertà individuale dei suoi membri. Questo significa che pur potendo essere una situazione non ottimale per la crescita del bambino in quanto cittadino e uomo libero, non si può impedire alla sua famiglia di educarlo come meglio crede, superstizioni e paletti irrazionali annessi. Se si permettesse allo Stato di intromettersi in faccende tanto private, si andrebbero a porre le basi per un pericoloso grande inquisitore, in grado di trasformarsi facilmente da garante dell'educazione civica a prepotente e arbitrario Grande Fratello.
Quello che invece la società può fare, è creare contesti educativi e formativi il più possibile improntati alla morale civile e umanista, promuovendo un incontro intelligente tra le diversità e uno sviluppo integrale della persona, non formandola solo come lavoratore ma anche come cittadino pensante. In fondo non bisogna dimenticarsi che tante menti geniali sono cresciute in contesti familiari molto duri e conservatori:
  • Immanuel Kant crebbe in una rigida famiglia pietista, la quale fu probabilmente la causa della mancata accettazione da parte sua della propria probabile omosessualità. Questo non gli impedì di essere l'illuminista per antonomasia. Inoltre, dimostrò sempre grande rispetto per la morale dei genitori.
  • Hermann Hesse, nonostante fosse figlio e nipote di famosi missionari protestanti, diventò l'icona hippie dell'inquieto ricercatore spirituale. Qualunque figlio dei fiori portava con sé una copia del Siddharta.
  • Bertrand Russell non visse un'infanzia felice come scrive nelle prime pagine della sua conquista della felicità: "Io non sono nato felice. Da bambino il mio salmo preferito era: "Stanco della terra e carico dei miei peccati". A cinque anni, mi dissi che, se dovevo vivere fino ai settanta, avevo sopportato soltanto, fino a quel momento, la quattordicesima parte di tutta la mia vita, e, intravedendo davanti a me il tedio che mi attendeva su di un cammino così lungo, lo giudicai insopportabile. Durante l'adolescenza, la vita mi era odiosa e pensavo al suicidio; ma questo mio proposito era tenuto a freno dal desiderio di approfondire la conoscenza della matematica." (1) Fortunatamente non andò così e diventò un celebre matematico, pacifista e filosofo.
Esempi emblematici della tesi che propongo. Osservando invece la vita di Giordano Bruno, nato nemmeno duecento anni prima di Kant, ci si può rendere conto di quanto, in una società chiusa, uno spirito libero possa faticare anche solo a per pensare privatamente fuori dai canoni. Infatti, almeno all'inizio della sua attività di filosofo, Giordano incontrò numerosi ostacoli alla sua ricerca intellettuale senza che avesse nemmeno l'anelito a rivoluzionare il mondo, al contrario dei suoi successori qualche secolo dopo. Egli voleva innanzitutto avere la libertà di studiare ciò che preferiva e con cui si sentiva più in sintonia.

A questo punto si delinea l'obiezione che vuole essere portata al Christian Day. Ciò che è problematico di questo tipo di manifestazioni non è appunto il pensare diversamente, né il fatto in sé che la religione si intrometta nella politica, ma piuttosto la tensione potenzialmente violenta e lesiva dei legittimi diritti civili, volta a restaurare quella società teocratica tanto agognata da alcuni.
In altre parole, se un cristiano non vuole permettere che si dica ad un omosessuale che andrà in paradiso nonostante il suo peccato, rimane nel lecito, perché sta parlando nell'ambito di quella particolare dottrina religiosa che può venire liberamente rifiutata, parzialmente o in toto, dal credente omosessuale. Questi avrà infatti tre opzioni praticabili:
  • adempiere alla richiesta di castità voluta dalla Chiesa e così rinunciare alla sua omosessualità per tenere salda la sua Fede;
  • cambiare Chiesa, e così aderire a dottrine più tolleranti. Cercando sul web si potranno infatti trovare alcune aggregazioni di fedeli, normalmente di confessione protestante, che reinterpreta, chissà se a ragione o a torto, la condanna dell'omosessualità presente negli scritti vetero e neotestamentari (escludendo però i vangeli, perché sì, in questi non c'è alcun riferimento diretto) in una maniera nettamente più favorevole verso gli omosessuali, per esempio affermando che nella bibbia ci si riferisca agli stupri omosessuali e non all'affettività omosessuale in sé;
  • sentirsi tradito e offeso dal proprio Dio e scegliere la via della miscredenza, uscendo da qualunque Chiesa.
Quello che invece il credente non potrà fare è lottare perché il rifiuto dell'omosessualità sia esteso all'aspetto sociale, votando chi vorrebbe aprire i campi di riabilitazione per omosessuali nel peggiore dei casi, o più moderatamente, per l'eliminazione dei diritti civili in nome di un interesse religioso incapace di fondare le proprie argomentazioni in senso laico, ossia razionale. Un esempio estremo aiuterà a capire: se degli studi scientificamente attendibili dimostrassero che i bambini cresciuti da coppie omosessuali siano molto più propensi a certe forme di criminalità, quali lo stupro o la pedofilia per esempio, allora sarebbe lecito chiedere un serio intervento politico al riguardo. Se invece l'unica motivazione che si può addurre a sostegno della propria intolleranza è che al dio che si venera non piacciono i gay perché innaturali, allora si perde la possibilità di essere presi sul serio da parte del mondo civile.

Riassumendo con uno slogan: affermare "in chiesa nessun omosessuale" è lecito; al contrario, "per strada nessun omosessuale" non lo è.


il Cercatore di Senso

riferimenti:
(1) La conquista della felicità, Bertrand Russell.